La restanza è una danza.

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Il prof. Vito Teti, docente di antropologia culturale dell’Unical, in un articolo di alcuni giorni fa (Il senso della restanza di Vito Teti), ha coniato un nuovo termine: restanza. Lo ha usato per definire quella sensazione, quello stato d’animo vissuto più o meno consapevolmente da molti di noi calabresi, eternamente combattuti tra lo stare e il fuggire, tra il sopportare e l’abbandonare. Sopportare il vilipendio quotidiano delle istituzioni, la sottomissione del bisogno, l’inciviltà dominante, la cultura egemone del familismo amorale.
Si, perché qui i bambini crescono nel culto un po’ mafioso del predominio della scaltrezza su tutto il resto. Spesso si sente dire: “Alla scola è ciucciu, però è spìartu”. E le famiglie sintonizzano l’educazione su queste frequenze.
La politica, l’impresa, le arti e le professioni qui (ma è un vizietto italiano) si fondano sulla prevalenza del più “spertu”. Non si incoraggia il figlio o il nipote a studiare di più perché lo studio, la cultura sono in grado di elevare l’uomo dalla sua condizione, ma lo si sprona a fregare il prossimo, a fotterlo prima di essere fottuti.

Comprendo la tristezza manifestata da Don Pietro De Luca sulle colonne di un quotidiano locale ieri nel rilanciare il disagio provato dal Presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, dott. Di Bella, nel giudicare, a distanza di vent’anni dal padre, il figlio di un mafioso.
E’ una sconfitta doppia dello Stato: da un lato per non essere stato in grado di rieducare effettivamente il condannato come vorrebbe la Costituzione, dall’altro per non aver saputo sopperire alle carenze educative della famiglia, lasciando che il modello mafioso prevalesse. Ma, come afferma Don Pietro, esistono mille altre ragioni per amare la nostra terra, tantissime vittorie che testimoniano la volontà di un popolo di crescere, di superare la sottocultura dominante, di strappare le etichette che ci sono state cucite addosso un po’ in tutto il mondo.

Ecco, tutto questo deve dare un senso alla”restanza” del prof. Teti per far si che si abbandoni il rimpianto del passato inteso come rimedio al mal di presente, e ci si proietti con convinzione in un futuro costruito sulle tradizioni ma non sul tradizionalismo, illuminati dai valori storici ma consapevoli del potere offerto dalla modernità. Ma lo si faccia lentamente, senza fretta, quasi danzando.
Abbandonando l’individualismo prevalente per una dottrina più ispirata al senso della collettività e alla solidarietà intergenerazionale.

Affinché si possa viaggiare restando.

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